Il Rimpianto di una patria


Indro Montanelli postfazione all’ultimo libro della Storia d’Italia

Questo volume segna il capolinea della nostra Storia dell’Italia contemporanea. Mario cervi, di parecchi anni più giovane di me, potrà, se vorrà (e io spero che lo voglia) continuarla da solo. Io debbo prendere congedo dai nostri lettori. E non soltanto per ragioni anagrafiche, anche se di per sé abbastanza evidenti e cogenti. Ma perché il congedo l’ho preso negli ultimi tempi dalla stessa Italia, un paese che non mi appartiene più e a cui sento di non più appartenere.
È stato proprio l’impegno profuso nella stesura di questi volumi, nei quali la storia si confonde con la testimonianza diretta, anche questa condivisa pienamente da cervi, a rendermi consapevole che quello nostro era qualcosa di mezzo tra il resoconto d’un fallimento e l’anamnesi di un aborto. Uno dei primi volumi usciti dalla nostra collaborazione, nonostante il titolo L’Italia della disfatta, reca i segni della speranza e delle illusioni con cui ne avevamo vissute le drammatiche ma esaltanti vicende. Credemmo che l’Italia avesse liquidato, sia pure a carissimo prezzo e grazie a forze altrui (ma questo è il Leitmotiv della nostra storia non soltanto di questo secolo), un regime che le aveva impedito di essere se stessa. Ed invece gli eventi che abbiamo seguito passo passo coi volumi successivi ci dimostravano che non era affatto cambiata col cambio del regime. Erano cambiate le forme, ma non la sostanza. Era cambiata la retorica, ma era rimasta retorica. Erano cambiate le menzogne, ma erano rimaste menzogne. Erano soprattutto cambiate le mafie del potere e della cultura, ma erano rimaste mafie.
Al referendum istituzionale del 2 giugno ’46, cervi ed io ancora non ci conoscevamo, e ci trovammo su posizioni opposte. Cervi si pronunciò per la Repubblica, io per la Monarchia. Ma entrambi eravamo convinti che quella fosse la data d’inizio di una «vita nova», molto diversa da quella che avevamo vissuto, o meglio subìto; e di questa grande speranza fummo entrambi (anche se io forse un po’ meno di cervi) partecipi. Essa ci sostenne, e in certi momenti forse anche ci esaltò, fino agli anni del «miracolo», che furono i primi cinquanta. Poi…
Noi questo «poi» lo abbiamo vissuto da giornalisti militanti, entrambi al «Corriere della sera». Entrambi assistemmo e fummo i cronisti della rapida degenerazione della democrazia in partitocrazia, cioè in un oligopolio di camarille e di gruppi che esercitavano il potere in nome della cosiddetta «sovranità popolare»; in realtà nel solo interesse di quei gruppi e camarille, che d’interesse ne avevano uno solo: che il potere restasse «cosa nostra», come infatti per quasi cinquant’anni è stato, e come seguita ad essere anche ora che ha cambiato titolari, ma sempre restando «cosa nostra».
In questo sistema abbiamo visto corrompersi tutto, a cominciare dallo stato. Lo stato che il fascismo aveva trovato quando assunse il potere non era gran che. Però una categoria di funzionari abbastanza onesti e ligi ad un certo rigore e decoro di comportamenti, nei pochi decenni di storia unitaria si era formata. E Mussolini la rispettò. Ne mise tutto il personale in camicia nera, ma non ne toccò i posti, le carriere e le competenze. Anche in periferia, il prefetto, organo dello stato, prevalse sempre, o quasi sempre, sul segretario federale, organo del partito. E questo atteggiamento fu particolarmente visibile nel campo della giustizia. Per perseguire il delitto di opinione, il regime dovette istituire una sua magistratura di partito perché quella ordinaria si rifiutava di considerare l’opinione un delitto, e il regime rispettò questo rifiuto.
Anche la Repubblica, «nata dalla Resistenza», com’era d’obbligo chiamarla, riconobbe ed anzi enfatizzò l’indipendenza della magistratura dal potere politico. E per meglio garantirla, la dotò di un organo di autogoverno, il consiglio superiore della magistratura, riservandosene però una componente «laica», cioè di non magistrati nominati a quei posti dal potere politico, e per esso dai tre maggiori partiti, che se lo contendevano, o meglio se lo spartivano. Ma la contaminazione non si era fermata qui. Aveva investito tutta la magistratura dividendola in «correnti» – ognuna delle quali faceva capo ad un partito o ad un’area.
È questo che spiega l’impunità con cui le forze politiche poterono compiere la loro opera di corruzione, che non consisteva soltanto nel prelievo dei pedaggi imposti a tutte le attività economiche pubbliche e private – le famose «tangenti» – ma anche nell’annessione e addomesticamento di tutti quegli organi di controllo – corte costituzionale, corte dei conti, consiglio di stato, Ragioneria generale – che alla corruzione avrebbero dovuto porre un freno e che invece ne diventarono lo strumento.
La corruzione non è un fenomeno soltanto italiano. Clemenceau diceva che non c’è democrazia che ne sia al riparo. Ma quella che aveva sotto gli occhi lui, in Francia, si limitava alla classe politica, forse non molto migliore della nostra. Ma a sbarrarle la strada c’era uno stato che dai tempi di colbert era servito da una vera e propria casta di commis, di funzionari rigorosamente selezionati in scuole speciali ed alla corruzione impermeabili. La burocrazia italiana non disponeva di un personale di altrettanto livello e non oppose resistenza al potere politico che se l’annesse distribuendo favori soprattutto di carriera agli arrendevoli e castighi a chi non si adeguava. I due milioni di miliardi e passa di debito pubblico non si possono spiegare che come il frutto di un reticolo di complicità fra classe politica e classe amministrativa che rese del tutto vano il disposto costituzionale secondo cui lo stato non poteva procedere a spese che non fossero coperte da adeguate entrate. Gli organi cui era affidata l’osservanza di questa regola ne avallarono tutte le contravvenzioni, richieste, ed anzi imposte da un potere politico che badava soltanto a sopravviversi distribuendo favori e indulgenze.
Di questo processo di corruzione potrei citare infiniti altri casi con prove e dettagli. Ma lo ritengo non solo superfluo, visto che è sotto gli occhi di tutti, ma anche fuorviante in quanto può rafforzare nel lettore la convinzione che sia dovuto soltanto alla classe politica. Non è così. Che la classe politica che ha esercitato il potere negli ultimi trenta o quarant’anni sia stata, nel suo insieme, corrotta e corruttrice, è vero. Ma è altrettanto vero che al potere è sempre rimasta col nostro voto. Perché, si usa dire, l’unica alternativa erano i comunisti che avrebbero fatto dell’Italia una succursale dell’unione sovietica. Ed anche questo è vero. Ma i voti ai comunisti, chi glieli dava? Ed ora che l’incubo del comunismo (piaccia o non piaccia al «compagno» Bertinotti) è finito, forse che le cose sono cambiate e la classe politica è migliorata?
L’anagrafe mi ha consentito, o forse mi ha condannato, a partecipare a tutte le grandi speranze di questo secolo italiano. Studente negli anni venti, ho sognato, come tanti, quasi tutti i miei coetanei, di contribuire a fare del fascismo una cosa seria, e automaticamente ce ne trovammo emarginati. Ci schierammo con le poche forze liberal-democratiche della Resistenza, e ce ne ritraemmo vedendola trasformata in uno strumento di partito e ridotta a grancassa della sua propaganda col consenso – o la sottomissione – della maggioranza degl’italiani. La speranza di contribuire a qualcosa di buono si riaccese subito dopo la Liberazione sotto la guida di pochi vecchi uomini del prefascismo, presto anch’essi emarginati dalle nuove leve di mestieranti della politica, abilissimi nei giuochi di potere, ma soltanto in quelli. E da allora cominciò la degenerazione mafiosa della democrazia sotto gli occhi indifferenti, o ipocritamente indignati, di una pubblica opinione alle mafie assuefatta da secoli.
Oramai sono giunto alla conclusione che la corruzione non ci deriva da questo o quel regime o da queste o quelle «regole», di cui battiamo, inutilmente, ogni primato di produzione. Ci deriva da qualche virus annidato nel nostro sangue e di cui non abbiamo mai trovato il vaccino. Tutto in Italia ne viene regolarmente contaminato. Se ci danno la democrazia, la riduciamo a partitocrazia, cioè ad un sistema di mafie. E la cultura, da cui avrebbero potuto e dovuto venirci moniti ed esempi, si è adeguata, come del resto volevano le sue origini.
La cultura italiana è nata nel palazzo e alla mensa del principe, laico o ecclesiastico che fosse, e non poteva esser altrimenti, visto che il principe era, in un paese di analfabeti e quindi senza pubblico mercato, il suo unico committente. Mentre la Riforma aveva sgominato l’analfabetismo facendo obbligo ai suoi fedeli di leggere e d’interpretare i testi sacri senza la mediazione del pastore autorizzato a dare solo qualche consiglio; la controriforma, che faceva del prete l’unico autorizzato interprete delle scritture, dell’analfabetismo era stata la fabbrica, che lasciava l’intellettuale alla mercé (in tutti i sensi) del suo patrono e protettore. Il quale naturalmente se ne faceva ripagare non solo con la piaggeria, ma anche con la difesa del sistema su cui si fondavano i suoi privilegi.
Così si formò quella cultura parassitaria e servile, che non è mai uscita dai suoi circuiti accademici per scendere in mezzo al popolo a compiervi quell’opera missionaria, di cui le è sempre mancato non solo la vocazione, ma anche il linguaggio. In Italia il professionista della cultura parla e scrive per i professionisti della cultura, non per la gente. E istintivamente cerca ancora un principe di cui mettersi al servizio.
Scomparsi quelli di una volta, il loro posto è stato preso dai depositari del potere, cioè dai partiti. E questo spiega la cosiddetta «organicità» dell’intellettuale italiano, sempre schierato dalla parte verso cui soffia il vento. Se è vero che l’ambizione di ogni intellettuale è di diventare il direttore della pubblica coscienza, l’intellettuale italiano la serve all’incontrario: mettendosene al rimorchio e facendo la mosca cocchiera di tutti i suoi eccessi e sbandate.
Ecco il motivo per cui ho deciso di rinunziare al seguito di questa Storia d’Italia (che del resto rischia di avvilirsi a cronaca giudiziaria). Ho smesso di credere all’utilità di una storia scritta al di fuori di tutti i circuiti della politica e della cultura tradizionali. Anzi, ad essere sincero sino in fondo, ho smesso di credere all’italia. Questo volume, che include la sceneggiata di piazza san Marco, include anche la convinzione di uno dei suoi due autori che in un’Italia come questa anche una sceneggiata può bastare a provocarne la decomposizione. Sangue non ce ne sarà: l’Italia è allergica al dramma, e per essa nessuno è più disposto a uccidere e tanto meno a morire. Dolcemente, in stato di anestesia, torneremo ad essere quella «terra di morti, abitata da un pulviscolo umano», che Montaigne aveva descritto tre secoli orsono.
O forse no: rimarremo quello che siamo: un conglomerato impegnato a discutere, con grandi parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giuochi di potere e d’interesse. L’Italia è finita. O forse, nata su dei plebisciti-burletta come quelli del 1860-’61, non è mai esistita che nella fantasia di pochi sognatori, ai quali abbiamo avuto la disgrazia di appartenere. Per me, non è più la patria. È solo il rimpianto di una patria.

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